Schopenhauer si dedica anche alla confutazione della prova fisico-teologica dell’esistenza di Dio così come è stata formulata da Kant: la tesi fondamentale è che, a partire dalla considerazione dell’ordine del mondo e del suo essere finalizzato a qualcosa, si può dedurre l’esistenza di un architetto, di un perfetto dio ordinatore di cui il mondo è immagine. Questa prova ebbe un successo enorme nel ‘700. Voltaire la considerava “la prova delle prove”, anche Hume la riteneva molto valida.
Schopenhauer osserva che la prova fisico-teologica è per i dotti l’equivalente di quella keraunologica per gli indotti: questa è derivata dal terrore e dalla speranza di fronte a fenomeni naturali quali il fulmine (in greco keraunos).
Ma questo mondo così insensato e pieno di male come può comportarsi finalisticamente? Esso è spiegato meglio dalla volontà di vivere o da un principio ordinatore onnisciente? Se è vero che esiste un dio che ha creato esseri che si scannano a vicenda, deve essere per forza un demone malvagio. Solo a guardarla, l’insensatezza liquida non solo la prova fisico-teologica, ma qualunque altro tipo di teofania. Ma, obiettano i fisico-filosofi, gli esseri sono organismi così perfetti, così ben strutturati, che devono per forza essere opera di una mente superiore. Schopenhauer, però, fa notare che questo presunto finalismo, in realtà falso, che noi intuiamo con la conoscenza, si basa proprio sull’intelletto: esso non è solo nato per l’intelletto, ma dall’intelletto.
Nessuno di noi può produrre qualcosa di finalistico senza il concetto di fine; ma non ci sono ragioni per attribuire anche alla natura, alla volontà questo modo di procedere. La natura si mostra come questo produrre oggetti in vista di un fine senza avere affatto una rappresentazione del concetto di fine.
Gli animali, almeno la prima volta, agiscono per istinto, ignorano lo scopo del loro agire. La cieca volontà produce questo mondo del tutto ciecamente, in un colpo solo, non certo dopo calcoli e congetture. L’in sé di un organismo, la sua volontà, è già sempre da tradursi in un colpo solo in quell’organismo: esso è già sempre subito quella data rappresentazione, senza alcun passaggio concettuale intermedio. Siamo noi che, ogni volta, ponderiamo e calcoliamo, quindi siamo portati a vedere tutta la realtà come finalizzata a qualcosa di superiore. Del resto, lo scopo di ogni cosa è essere qual essa è, cioè l’essere insensato che è. Il fine ultimo del mondo è proprio questo mondo crudele e ingiusto.
Il finalismo non implica sempre necessariamente intelligenza: i prodotti della nostra mente sono sì in vista di un fine, ma sono solo una minima parte del grande processo finalistico volto all’insensatezza.
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