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Fenomeno Dragon Ball
Dal manga agli anime, l’intramontabile successo della saga nata da una leggenda della Cina antica (e rilanciata dal Giappone). Vita di un guerriero alla ricerca del drago che esaudisce i desideri
Narra la leggenda che, nella lontana Cina del XVI secolo, un monaco si trovò a compiere un memorabile viaggio alla scoperta della verità e dell’illuminazione. Strada facendo, tra numerose peripezie, strinse amicizia con diversi curiosi personaggi, fra i quali il piccolo ma caparbio Son Goku, guerriero dall’aspetto di scimmia, in grado di volare su una nuvoletta e armato di un bastone allungabile. Così, almeno, raccontavano le tradizioni popolari già del VII e VII secolo raccolte da Lo Scimmiotto, uno dei testi fondativi della letteratura cinese, molto noto anche in Giappone. E così debuttò, nel 1984,
Dragon Ball, il più grande successo internazionale di manga e anime fra gli anni Ottanta e Novanta. Solo, la «verità» secondo Goku e Bulma consisteva nella ricerca non tanto di sacri testi buddisti, ma di sette sfere magiche che avrebbero consentito di evocare un drago capace di esaudire qualsiasi desiderio.
Se è impossibile descrivere la Generazione X senza Mazinga o Goldrake, altrettanto impossibile è comprendere la generazione dei Millennials senza Dragon Ball. Perché Dragon Ball non è diventato un fenomeno di consumo così radicato e memorabile per caso. Anzi.
Le avventure di Dragon Ball debuttano come una classica quest con qualche bizzarrìa: una comicità insolita per la «seriosa» avventura occidentale, condita da insolite punte di (ingenua) malizia, e un inatteso tasso di «giapponesità». Da un lato il modello va oltre l’ironia di racconti picareschi come quelli del Barone di Munchausen, con vere e proprie gag che tradiscono l’iniziale volontà del suo autore: offrire una rilettura parodistica de Lo Scimmiotto; inoltre Goku, dodicenne vissuto isolato in montagna senza mai incontrare altri umani oltre al nonno, non è in grado di cogliere le differenze tra uomini e donne, e dall’incontro con Bulma scoprirà via via alcune caratteristiche dell’altro sesso (inclusa una celebre sequenza in cui toglie, nel sonno, le mutandine all’amica; una sessualizzazione scherzosa e decomplessata, checché ne disse all’epoca qualche genitore, innescando scomposti dibattiti sui media e reazioni piccate dei fans). Dall’altro, molti dettagli nella prima messa in onda in Italia (su Junior Tv) mantennero un esplicito sapore giapponese: dai nomi dei personaggi a quelli di oggetti e tecniche di combattimento. Il fumetto a cui la serie televisiva era ispirato segnalò, in particolare, un punto di rottura con il passato per la fruizione di fumetti nel loro complesso: nel 1995 Dragon Ball fu il primo manga in Italia a venire stampato secondo il verso di lettura originale nipponico, ovvero da destra a sinistra. Leggere «al contrario» un albetto fu una novità inattesa e dirompente, che rafforzò nei giovani lettori la sensazione di vivere un’esperienza radicalmente diversa da quelle fatte dai propri genitori.
Con l’evolversi della serie, il tocco umoristico del suo creatore — Akira Toriyama, già autore di una strampalata quanto allegra sitcom fumettistico- televisiva come Dr. Slump e Arale, e alfiere della rivista bestseller Shonen Jump — andrà progressivamente esaurendosi, abbandonando le rotondità per un segno più spigoloso, e mettendo al centro non tanto la ricerca delle sfere in sé, quanto la complessità e violenza degli scontri con i diversi antagonisti. Un po’ come accaduto con le partite di calcio in Holly & Benji, gli allenamenti estenuanti e le sfide all’ultima «onda energetica » si estendono su più episodi, offrendo un’epica (e un’etica) dello scontro che nelle successive serie Dragon Ball Z e Dragon Ball GT — in cui Goku è ormai adulto — raggiungerà il culmine in toni assai più seriosi e action rispetto agli esordi.
Ma al cuore della saga si affaccia, accanto a una nuova familiarità con l’immaginario mainstream del Giappone, un altro modello di consumo: il videogame. Ogni avversario da superare, ogni sfera da recuperare, agli occhi degli spettatori diventano una sorta di «livelli» di un lungo, colossale videogioco fruito collettivamente. La «giocabilità» di Dragon Ball non a caso si è poi estesa, negli ultimi quindici anni, a tante occasioni di interazione fra bambini impegnati nel duro «lavoro» di fantasticare scontri e battaglie con i propri amici, usando come supporto sia frasi e parole d’ordine che giocattoli, pupazzi o carte. In fondo, gli spettatori di Dragon Ball non sono stati che gli amichetti — o i fratelli maggiori — con cui si ritroveranno a giocare a Pokémon in pieni anni Duemila, mostrando quanto permeabili siano diventate le aree della lettura, della visione, del gioco e del videogioco.
Dragon Ball è stato insomma uno dei cardini dell’avventura di una generazione cresciuta in un contesto sempre più crossmediale e globale. Una generazione che ha iniziato con qualche risata stupita, ha poi preso sul serio l’ebbrezza dell’azione e, oggi, può permettersi di ricomporre quella leggerezza con lo sguardo di chi sa di essere arrivato (poco) prima dei nativi digitali.
(docente di Linguaggi audiovisivi all’Università Cattolica di Milano;
direttore di Fumettologica.it)