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Sono già quattro anni. Marco Pantani, detto il Pirata, il corridore più popolare del ciclismo moderno, successivo cioè a Fausto Coppi e Gino Bartali, veniva trovato senza vita il 14 febbraio 2004 nella stanza D5 del residence Le Rose di Rimini.
Erano le 21, 15 di uno stupido giorno di San Valentino. C'era poco da festeggiare. Marco, da giorni, era chiuso dentro nella sua stanza. Solo e disperato come può essere un uomo depresso e schiavo della cocaina. Neanche i suoi genitori, in vacanza in Grecia, sapevano che era nascosto lì. Si faceva portare delle pizze dalla reception e non parlava con nessuno. Era anche rabbioso. Con qualche cliente, troppo rumoroso, aveva litigato. Ma chi è quel matto? Perché grida? Non l'avevano neppure riconosciuto. Ci vuol poco a scendere dal podio, a uscire dalla cornice della celebrità. L'ultimo suo lampo risaliva al Giro d'Italia del 2003 quando, sullo Zoncolan e poi nella tappa delle Cascate del Toce, aveva attaccato alla sua maniera. Via il berrettino, e vediamo cosa succede. Ma non ce la fece. Non era già più Pantani. Pochi giorni dopo, infatti, Marco entrava in una clinica del Trentino per curarsi dalla depressione. E già giravano le voci di una sua dipendenza dalla cocaina. Ma gli amici, e anche i giornalisti, spesso bistrattati ma questa volta solidali, stavano zitti. Solo qualche messaggio d'augurio o qualche articolo inutilmente ottimista che auspicava un suo rapido recupero.
Ma Pantani aveva altro per la testa. A 34 anni, dopo aver toccato una popolarità travolgente, e aver vinto nello stesso anno (1998) Giro d'Italia e Tour de France, si vedeva finito. Al capolinea. Schiacciato dai nemici, quelli che cinque anni prima, dopo la Tappa di Madonna di Campiglio, lo avevano fatto scendere per sempre dalla sua bicicletta. Ematocrito troppo alto. Il massimo consentito era il 50 per cento. Marco, che stava dominando il Giro in modo schiacciante, arrivava al 52 per cento. Il margine di tolleranza era l'uno per cento. Niente da fare. Non era una prova di doping, ma il regolamento parlava chiaro: sospensione per 15 giorni.
Addio Giro. Marco uscì dall'albergo, dopo aver spaccato un vetro. La faccia livida, gli occhi persi nel vuoto, i carabinieri di fianco. «Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni e sono tornato a correre . Questa volta rialzarsi sarà molto difficile».
La notizia attraversò come una scarica elettrica tutta l'Italia. Quasi un milione di persone lo aspettava sulla strada che portava al traguardo dell'Aprica. Una giornata surreale. Una specie di incubo sotto il sole scintillante. I tifosi erano ammutoliti. Increduli. Quasi tutti capirono che un sogno erano finito. Che quel ragazzo senza capelli aveva concluso la sua avventura.
Quel giorno, come ha anche accusato sua madre Tonina, in un libro appena uscito di Enzo Vicennati (Era mio Figlio, Mondadori, 16,50 euro) è cominciata la sua agonia. A differenza di altre ricostruzioni, per esempio quella del giornalista francese Philippe Brunel (Gli ultimi giorni di Marco Pantani, Rizzoli, euro 16), quella della mamma di Marco non contesta la versione ufficiale, cioè che suo figlio sia morto per overdose di cocaina. Quello che la signora Tonina sostiene è un'altra cosa: è cioè che a Madonna di Campiglio sia stata organizzata una "trappola" per far fuori un personaggio diventato "scomodo" per tutto il mondo del ciclismo. Troppo forte, troppo ambizioso, troppo popolare al punto da oscurare gli altri.
«Nel libro io racconto chi è Marco Pantani», spiega mamma Tonina. «Per le cause della sua morte spero che la Procura di Forlì possa aiutarmi a capire cosa è successo a Campiglio e non il 14 febbraio di 4 anni fa. Marco è stato ucciso a Campiglio...».
Legittimo che una madre possa difendere con le unghie e coi denti la memoria di suo figlio. Che un genitore se la prenda anche con la fidanzata, Christine, accusandola di avergli negato la gioia di un bambino. Che accusi i giudici e il mondo del ciclismo di aver distrutto, soprattutto psicologicamente, il figlio. Sono cose che ci stanno. Soprattutto dal punto di vista di una madre.
Forse davvero Pantani aveva irritato troppa gente nel gruppo. Non concedeva più tappe, voleva vincere tutto. Può darsi che qualcuno abbia voluto dargli una lezione, che l'abbia aspettato al varco sapendo che, in quel giorno, si poteva incastrarlo. Come adesso, il ciclismo correva con la spada del doping sulla testa. Le voci giravano. Come fa, mugugnavano i suoi rivali, ad andare così forte? Anche i dirigenti del ciclismo insistevano perché si colpisse il doping con la massima severità. E Pantani era un simbolo. Un modo per dare una lezione esemplare. Per dire: qui non si fanno sconti, anche i big devono rispettare le regole. Questa era l'atmosfera che si respirava in qui giorni. E non sembra davvero cambiato granchè.
Solo che da quel giorno, in Pantani, si ruppe qualcosa. Il suo motore, nato per vincere, s'ingrippò. Si chiuse in se stesso, non partecipò al Tour anche se avrebbe potuto farlo perché la squalifica durava solo 15 giorni. Accusò i giudici di aver volutamente scambiato le provette incriminate, di volerlo colpire anche se innocente.
Cominciarono gli incidenti in macchina, le notti perse nei locali, la fuga dagli amici, dalle persone che gli volevano davvero bene. Non rispondeva al telefono. Perfino Felice Gimondi non riusciva a trovarlo. I giornalisti non parliamone. Anche i suoi genitori facevano fatica a comunicare con lui. Racconta ancora mamma Tonina: «Qualsiasi iniziativa prendessi sbatteva contro Manuela Ronchi, la sua manager, la quale mi ripeteva che ci avrebbe pensato lei. Non è mai stato fatto niente».
In questo quadro, la corsa verso il precipizio è incalzante. Ma ci furono ancora dei lampi. Per esempio al Tour de France 2000 quando Pantani si batte come una furia contro Lance Armstrong riuscendo persino a staccarlo nella tappa di Courchevel. Ma erano episodi, scatti d'orgoglio. Poi Marco tornava nel suo silenzio, nel suo velo nero di depressione. Un'altra fuga, diversa da quelle che ci aveva abituato, senza applausi o incitamenti. Per questo, quando l'hanno trovato solo come un cane, quel 14 febbraio, in una stanza semidesvastata dalla solitudine, non tutti si sono sorpresi. In fondo al cuore si sapeva che buttava male, come quando si sa di un amico che non gode di buona salute, e si temono cattive notizie.
Il giornalista francese, Philippe Brunel, nel suo libro, ha scritto che ci sono molte zone d'ombra negli ultimi giorni di Marco. Che non aveva ferite nelle unghie e nelle mani nonostante avesse ribaltato l'appartamento. Riferisce del particolare macabro del perito che, dopo l'autopsia, aveva portato a casa il cuore di Pantani per impedire che venisse trafugato da qualcuno. Scrive di strani personaggi che avrebbero visto il campione quando già era a Rimini. E si domanda perchè l'inchiesta ha subito scartato l'ipotesi del suicidio o dell'omicidio. Brunel scava insomma nelle zone grigie cercando di farle diventare nere, anzi un po' noir, come se la storia di Pantani, supportata da indagini più accurate, potesse cambiare fisionomia: non più quindi l'inquietante deragliamento di un uomo/campione ripiombato nella bassa classifica della vita, ma una storia più poliziesca con oscuri killer che colpiscono nell'ombra lasciando ferite al naso e al collo non giustificate dall'autopsia.
Insomma, Brunel cerca un vero Colpevole: non gli bastano dei mediocri spacciatori, tre dei quali già condannati dalla giustizia. Vuole qualcuno in carne e ossa su cui, molto umanamente, scaricare questo tremendo epilogo della vita di Marco Pantani, grande campione ma uomo infelice come spesso capita ai grandi campioni costretti a fare i conti con le devastanti pretese della popolarità.
Non è facile stare sempre in prima fila, essere sempre all'altezza di una parte troppo impegnativa. Per farlo si rischia di dover fare un patto col diavolo. E il diavolo, quando non gli servi più, prima o poi ti molla. Da solo, davanti a un grigio mare di febbraio, senza un cane che ti dia una mano.
da ilsole24ore.com
http://it.youtube.com/watch?v=cKSCqMbV0gI
un piccolo ricordo per un grande campione
Erano le 21, 15 di uno stupido giorno di San Valentino. C'era poco da festeggiare. Marco, da giorni, era chiuso dentro nella sua stanza. Solo e disperato come può essere un uomo depresso e schiavo della cocaina. Neanche i suoi genitori, in vacanza in Grecia, sapevano che era nascosto lì. Si faceva portare delle pizze dalla reception e non parlava con nessuno. Era anche rabbioso. Con qualche cliente, troppo rumoroso, aveva litigato. Ma chi è quel matto? Perché grida? Non l'avevano neppure riconosciuto. Ci vuol poco a scendere dal podio, a uscire dalla cornice della celebrità. L'ultimo suo lampo risaliva al Giro d'Italia del 2003 quando, sullo Zoncolan e poi nella tappa delle Cascate del Toce, aveva attaccato alla sua maniera. Via il berrettino, e vediamo cosa succede. Ma non ce la fece. Non era già più Pantani. Pochi giorni dopo, infatti, Marco entrava in una clinica del Trentino per curarsi dalla depressione. E già giravano le voci di una sua dipendenza dalla cocaina. Ma gli amici, e anche i giornalisti, spesso bistrattati ma questa volta solidali, stavano zitti. Solo qualche messaggio d'augurio o qualche articolo inutilmente ottimista che auspicava un suo rapido recupero.
Ma Pantani aveva altro per la testa. A 34 anni, dopo aver toccato una popolarità travolgente, e aver vinto nello stesso anno (1998) Giro d'Italia e Tour de France, si vedeva finito. Al capolinea. Schiacciato dai nemici, quelli che cinque anni prima, dopo la Tappa di Madonna di Campiglio, lo avevano fatto scendere per sempre dalla sua bicicletta. Ematocrito troppo alto. Il massimo consentito era il 50 per cento. Marco, che stava dominando il Giro in modo schiacciante, arrivava al 52 per cento. Il margine di tolleranza era l'uno per cento. Niente da fare. Non era una prova di doping, ma il regolamento parlava chiaro: sospensione per 15 giorni.
Addio Giro. Marco uscì dall'albergo, dopo aver spaccato un vetro. La faccia livida, gli occhi persi nel vuoto, i carabinieri di fianco. «Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni e sono tornato a correre . Questa volta rialzarsi sarà molto difficile».
La notizia attraversò come una scarica elettrica tutta l'Italia. Quasi un milione di persone lo aspettava sulla strada che portava al traguardo dell'Aprica. Una giornata surreale. Una specie di incubo sotto il sole scintillante. I tifosi erano ammutoliti. Increduli. Quasi tutti capirono che un sogno erano finito. Che quel ragazzo senza capelli aveva concluso la sua avventura.
Quel giorno, come ha anche accusato sua madre Tonina, in un libro appena uscito di Enzo Vicennati (Era mio Figlio, Mondadori, 16,50 euro) è cominciata la sua agonia. A differenza di altre ricostruzioni, per esempio quella del giornalista francese Philippe Brunel (Gli ultimi giorni di Marco Pantani, Rizzoli, euro 16), quella della mamma di Marco non contesta la versione ufficiale, cioè che suo figlio sia morto per overdose di cocaina. Quello che la signora Tonina sostiene è un'altra cosa: è cioè che a Madonna di Campiglio sia stata organizzata una "trappola" per far fuori un personaggio diventato "scomodo" per tutto il mondo del ciclismo. Troppo forte, troppo ambizioso, troppo popolare al punto da oscurare gli altri.
«Nel libro io racconto chi è Marco Pantani», spiega mamma Tonina. «Per le cause della sua morte spero che la Procura di Forlì possa aiutarmi a capire cosa è successo a Campiglio e non il 14 febbraio di 4 anni fa. Marco è stato ucciso a Campiglio...».
Legittimo che una madre possa difendere con le unghie e coi denti la memoria di suo figlio. Che un genitore se la prenda anche con la fidanzata, Christine, accusandola di avergli negato la gioia di un bambino. Che accusi i giudici e il mondo del ciclismo di aver distrutto, soprattutto psicologicamente, il figlio. Sono cose che ci stanno. Soprattutto dal punto di vista di una madre.
Forse davvero Pantani aveva irritato troppa gente nel gruppo. Non concedeva più tappe, voleva vincere tutto. Può darsi che qualcuno abbia voluto dargli una lezione, che l'abbia aspettato al varco sapendo che, in quel giorno, si poteva incastrarlo. Come adesso, il ciclismo correva con la spada del doping sulla testa. Le voci giravano. Come fa, mugugnavano i suoi rivali, ad andare così forte? Anche i dirigenti del ciclismo insistevano perché si colpisse il doping con la massima severità. E Pantani era un simbolo. Un modo per dare una lezione esemplare. Per dire: qui non si fanno sconti, anche i big devono rispettare le regole. Questa era l'atmosfera che si respirava in qui giorni. E non sembra davvero cambiato granchè.
Solo che da quel giorno, in Pantani, si ruppe qualcosa. Il suo motore, nato per vincere, s'ingrippò. Si chiuse in se stesso, non partecipò al Tour anche se avrebbe potuto farlo perché la squalifica durava solo 15 giorni. Accusò i giudici di aver volutamente scambiato le provette incriminate, di volerlo colpire anche se innocente.
Cominciarono gli incidenti in macchina, le notti perse nei locali, la fuga dagli amici, dalle persone che gli volevano davvero bene. Non rispondeva al telefono. Perfino Felice Gimondi non riusciva a trovarlo. I giornalisti non parliamone. Anche i suoi genitori facevano fatica a comunicare con lui. Racconta ancora mamma Tonina: «Qualsiasi iniziativa prendessi sbatteva contro Manuela Ronchi, la sua manager, la quale mi ripeteva che ci avrebbe pensato lei. Non è mai stato fatto niente».
In questo quadro, la corsa verso il precipizio è incalzante. Ma ci furono ancora dei lampi. Per esempio al Tour de France 2000 quando Pantani si batte come una furia contro Lance Armstrong riuscendo persino a staccarlo nella tappa di Courchevel. Ma erano episodi, scatti d'orgoglio. Poi Marco tornava nel suo silenzio, nel suo velo nero di depressione. Un'altra fuga, diversa da quelle che ci aveva abituato, senza applausi o incitamenti. Per questo, quando l'hanno trovato solo come un cane, quel 14 febbraio, in una stanza semidesvastata dalla solitudine, non tutti si sono sorpresi. In fondo al cuore si sapeva che buttava male, come quando si sa di un amico che non gode di buona salute, e si temono cattive notizie.
Il giornalista francese, Philippe Brunel, nel suo libro, ha scritto che ci sono molte zone d'ombra negli ultimi giorni di Marco. Che non aveva ferite nelle unghie e nelle mani nonostante avesse ribaltato l'appartamento. Riferisce del particolare macabro del perito che, dopo l'autopsia, aveva portato a casa il cuore di Pantani per impedire che venisse trafugato da qualcuno. Scrive di strani personaggi che avrebbero visto il campione quando già era a Rimini. E si domanda perchè l'inchiesta ha subito scartato l'ipotesi del suicidio o dell'omicidio. Brunel scava insomma nelle zone grigie cercando di farle diventare nere, anzi un po' noir, come se la storia di Pantani, supportata da indagini più accurate, potesse cambiare fisionomia: non più quindi l'inquietante deragliamento di un uomo/campione ripiombato nella bassa classifica della vita, ma una storia più poliziesca con oscuri killer che colpiscono nell'ombra lasciando ferite al naso e al collo non giustificate dall'autopsia.
Insomma, Brunel cerca un vero Colpevole: non gli bastano dei mediocri spacciatori, tre dei quali già condannati dalla giustizia. Vuole qualcuno in carne e ossa su cui, molto umanamente, scaricare questo tremendo epilogo della vita di Marco Pantani, grande campione ma uomo infelice come spesso capita ai grandi campioni costretti a fare i conti con le devastanti pretese della popolarità.
Non è facile stare sempre in prima fila, essere sempre all'altezza di una parte troppo impegnativa. Per farlo si rischia di dover fare un patto col diavolo. E il diavolo, quando non gli servi più, prima o poi ti molla. Da solo, davanti a un grigio mare di febbraio, senza un cane che ti dia una mano.
da ilsole24ore.com
http://it.youtube.com/watch?v=cKSCqMbV0gI
un piccolo ricordo per un grande campione